Lo shamir

Andando alla ricerca della eventuale tecnologia del quale potessero disporre gli esseri semidivini per le loro opere; sono giunto alla conoscenza della presenza in passato, di un attrezzo che nel linguaggio ebraico è detto “ shamìr”.

Lo shamir, il verme che mangia la pietra (oggi forse un laser)

Le  informazioni seguenti, sono tratte da un articolo di Lia Mangolini: La vera natura del “magico Shamìr”, al quale indirizzo coloro che intendono approfondire.

Tradizione midràshica: Aggettivo da midràsh (plurale midrashìm): narrazione popolare che amplia e arricchisce di tradizione orale e di leggenda gli scarni testi dell’Antico Testamento. Spesso altrettanto vetusti di questo, i midrashìm trattano le identiche storie ed i medesimi personaggi, fornendo talvolta su di essi indicazioni essenziali, ma non sono stati inclusi nella Sacra Scrittura per motivi dottrinari.

 I midrashìm costituiscono la fonte più diretta delle tradizioni “apocrife” di argomento biblico. In un  midràsh è riportato che, per la costruzione del Tempio, Salomone aveva dato ordini molto precisi. Secondo la Legge mosaica, Legge divina, nessun materiale (pietra, legno, oro, avorio etc.) doveva essere lavorato con attrezzi di ferro. L’altare, soprattutto, non doveva essere profanato in nessun modo da quel contatto, e nel cantiere non doveva entrare nemmeno un chiodo; né tanto meno martelli, scalpelli, picconi o altro.

Tanto è vero che il materiale da costruzione, o almeno, sicuramente, la pietra, era arrivato sul posto già squadrato, se non rifinito, di modo che durante i lavori “non si udì nel Tempio nessun rumore prodotto da utensili metallici”. L’unica maniera alternativa di lavorare la pietra senza impiegare strumenti di ferro era quella di usare il “magico Shamìr”.

Dio stesso l’aveva dato sul Sinai a Mosè, che se ne era servito per incidere i nomi delle dodici tribù sulle pietre incastonate nel pettorale e nell'”efòd” che facevano parte dei paramenti del Sommo Sacerdote. Da allora però lo Shamìr era sparito e non si sapeva più che fine avesse fatto. Una quindicina di midrashìm  riportano informazioni relative al shamir, riportate nel libro ”Le leggende degli ebrei” di Louis Ginzberg.

Particolari tecnici

·                     Lo Shamìr, con altre creature soprannaturali, venne creato al crepuscolo del sesto giorno della Creazione.

·                     E’ grande più o meno come un grano di frumento o d’orzo, e possiede la mirabile proprietà di tagliare qualsiasi materiale per quanto durissimo, anche il più duro dei diamanti.

·                     Per questa ragione venne utilizzato da Mosè per lavorare le gemme poste sul “pettorale del giudizio” del Sommo Sacerdote. I nomi dei capi delle dodici tribù furono dapprima tracciati con l’inchiostro sulle pietre destinate a essere incastonate nel pettorale (e anche sulle due onici dei fermagli posti sulle spalline dell'”efòd” – N.d.A.) poi lo Shamìr venne passato sui tratti che rimasero così incisi (dalla letteratura rabbinica). Il fatto più straordinario fu che l’attrito (o l’azione) che segnò le gemme non produsse alcun residuo.

·                     Lo Shamìr venne inoltre usato per tagliare le pietre con cui fu costruito il Tempio, perché la legge proibiva di usare per quest’opera strumenti di ferro (dal Talmud e dalla letteratura midràshica).

·                     Lo Shamìr non può essere conservato in un recipiente chiuso di ferro o di qualunque altro metallo, poiché lo farebbe scoppiare. Esso va avvolto in un panno di lana e deposto in un cesto di piombo pieno di crusca d’orzo.

·                     Lo Shamìr rimase in paradiso sinché Salomone non ne ebbe bisogno e mandò l’aquila (o un altro volatile) a prenderlo. Era il più meraviglioso strumento in possesso del re.

·                     Con la fine dei lavori del Primo Tempio, o con la distruzione del Tempio stesso, lo Shamìr scomparve (o forse cessò di funzionare).

Nel semileggendario “Testamento di Salomone” (del III° secolo d.C.) si narra inoltre che, durante la costruzione del Tempio, gli operai addetti ai lavori soffrivano di un male misterioso che provocava grande spossatezza: ogni giorno più pallidi, con profonde occhiaie, deperivano, non riuscivano più a lavorare, e ogni notte erano visitati da vampiri e dèmoni che li affamavano rubando loro il cibo (il che, a parer mio, significa che rimettevano anche l’anima).

Quando incominciarono a morire, il re salì sul monte Moria e pregò Dio, il quale gli mandò in dono, tramite l’arcangelo Michele, il famoso anello d’oro, con incisi la stella e il Suo ineffabile Nome, che dava poteri straordinari e immensa saggezza (in quell’anello fu più tardi incastonato lo Shamìr, che era una specie di rutilante “pietra verde“, un “portentoso gioiello che irradiava luce”). Vampiri e dèmoni furono messi, al posto degli operai, a tagliar pietre giorno e notte. Questo è, più o meno, tutto quello che si sa sul “magico Shamìr”. Complessivamente, dai brani citati si possono trarre le seguenti informazioni “tecniche”:

SL Lo shamir poteva essere usato per foggiare e per lavorare qualunque minerale, anche le pietre più dure, un midràsh dice “anche il legno duro come pietra”, diamante compreso (che, in alcune versioni, figura tra le gemme del pettorale); era in grado di intaccare anche il vetro; la sua azione non lasciava residui.

2)    il suo aspetto era quello di un “qualcosa” delle dimensioni di un granello d’orzo, forse di colore verde;

3)    non poteva essere conservato in un contenitore metallico chiuso, che sarebbe esploso (o si sarebbe fuso): liberava vapori? o che altro?

4)    solo il piombo, anzi un recipiente non ermetico di piombo, se protetto da una adeguata coibentazione, poteva resistere alla corrosione (o comunque alla reazione chimica) da esso prodotta;

5)    non danneggiava la lana né la crusca e, con qualche problema, si poteva manipolarlo a mani nude.

6)    non inibiva la crescita delle piante;

7)    con l’andar del tempo (si parla di circa 400 anni, quelli intercorsi fra la costruzione e la distruzione del Tempio; ma forse ne occorsero molti meno) “scomparve”, o meglio “divenne inattivo”.

Appare piuttosto evidente che la descrizione di questo “qualcosa” fosse dovuta, in origine, all’esperienza diretta di chi con questo “qualcosa” aveva avuto a che fare, e che l’aveva usato.

Ed appare ugualmente evidente, poiché all’epoca della stesura di questi testi, di cosa fosse di preciso lo Shamìr si era ormai persa la memoria e, che le straordinarie caratteristiche di questo “oggetto misterioso” non sono riferibili ad alcuna delle più comuni interpretazioni che ne vengono date.

Il dizionario ebraico-italiano, alla voce “SHAMIR”, elenca infatti diverse, mirabilmente eclettiche definizioni: 1) diamante (?) (sic); 2) verme leggendario che tagliava le pietre per il Santuario; 3) finocchio; 4) paliuro. E questo è tutto.

L’unica indicazione aggiuntiva viene dal termine, subito sotto riportato, di “niàr shamìr” che in ebraico moderno a tutt’oggi, correntemente, indica la comune “carta vetrata”, cioè qualcosa che consuma e corrode. Qui ci troviamo evidentemente nel campo delle ipotesi. Dirò di più, siamo al livello degli indovinelli da bambini: minerale, animale o vegetale?

Ora, è chiaro che siamo costretti a considerare attendibili i dati forniti. D’altronde, non abbiamo alternative. Quindi, sulla base degli elementi descrittivi a nostra disposizione, e alla luce delle conoscenze scientifiche attuali, cercherò per prima cosa di escludere le interpretazioni “impossibili”, e quindi (anche mettendo in atto i collegamenti cui prima accennavo) di identificare per tentativi il favoloso Shamìr. Ma che cos’era insomma? 

Nel caso in esame, si diceva che quel singolare animaletto sarebbe strisciato dentro o sul pezzo da lavorare riuscendo a intaccarlo o a fenderlo con un taglio perfetto. Si diceva pure che un suo semplice tocco potesse scindere la pietra.

Una leggenda iraniana racconta che Zal, una volta salito al trono, con la sua sposa, “splendevano” per la presenza di un'”essenza divina”, chiamata “farr” o “khvarnah” (“Fortuna del Re” e “Gloria di Dio”), la quale permetteva di scavare le sostanze più dure, forgiare metalli e addirittura conoscere la natura di Dio. Senza di essa, tangibile simbolo dell’investitura celeste, un re non poteva regnare.

Una cultura  in Cappadocia, a partire dal 9500 a.C., costruì qualcosa come 36 città sotterranee articolate su 18-20 livelli e in grado di ospitare una popolazione da 100.000 a 200.000 anime. https://www.presenze-aliene.it/derinkuyu/

Scavate nella viva roccia, le abitazioni (che i locali chiamano “camini delle fate”, poiché le credono opera degli “angeli caduti” e tuttora abitate dagli Jinn o dalle Peri ) sono collegate fra loro da una rete di tunnel alti anche più di due metri, e oltre a ciò sono aerate da numerosi condotti di ventilazione, lunghi molti metri e con un diametro medio di 4 centimetriScavati come?

E’ soltanto qualche millennio più tardi, quando improvvisa poco dopo il 4000 a.C. esplose la grande civiltà del “Paese fra i due fiumi”, seguita dappresso da quella egizia, che ebbe inizio in questa parte del mondo allora conosciuto quella straordinaria produzione di oggetti d’uso ma più che altro di opere d’arte in pietra, che ci lascia tuttora ammirati, ma anche perplessi e sconcertati per la sua incredibile accuratezza in rapporto agli utensili (o almeno a quelli a noi noti) di cui si presume l’impiego.

Lavorazione minuta

Così come è inspiegabile e sconcertante la lavorazione della pietra di dimensioni ciclopiche, altrettanto sconcertante è la lavorazione di cose minute, con materiali  di impossibile lavorazione. Con lavorazione minuta, si intendono  incisioni, figure e scritte, delle dimensioni massime di un paio di centimetri, eseguite sul quarzo (durezza 7), sul diaspro (idem), sull’onice di pietre da sigillo o da ornamento, in gran parte riportate alla luce dagli scavi in Mesopotamia e in Egitto.

 Iscrizioni il cui spessore a volte non supera 0,16 millimetri. Mentre ci è difficile persino raffigurarci la misura e l’aspetto del morsetto che necessariamente doveva tenerle ferme durante il lavoro del bulino, è stato calcolato che quelle pietre debbono essere state lavorate con punte resistentissime da mm 0,12Di che materiale?

Non a caso Esodo 28, 11 e 39, 6, parlando delle 12 gemme da incastonare nel “pettorale del giudizio” e delle due onici, o “sarde”, poste sulle spalle dell'”efòd”, specifica che avrebbero dovuto essere istoriate “secondo il lavoro dell’intagliatore di pietre, che incide un sigillo”, “secondo l’arte di incidere i sigilli”. E’ interessante notare che la citazione di quelle tecniche d’incisione non contiene niente di magico. Si sa comunque che l’arte (e l’uso) di tagliare, incidere, intarsiare e scolpire in rilievo le pietre dure e preziose è una delle più antiche conosciute, e risale a gran tempo prima che fossero conosciuti i metalli adatti a questo scopo.

E di che materiale erano fatti gli strumenti con i quali venne scolpita la statua in diorite di Gudea di Lagash, che ha più di 4000 anni? O la stele famosa del Codice di Hammurabi, di poco posteriore, dove il basalto nero è tutto coperto da una minutissima e nettissima scrittura cuneiforme che pare impressa nell’argilla o nella cera? 

Tutti questi manufatti e infiniti altri, meravigliosi nell’aspetto e di fattura perfetta,  sembrano eseguiti con la massima facilità, come se la solida pietra fosse stata semplicemente plasmata, e non violentemente colpita con rozzi attrezzi primitivi, tenacemente scavata, levigata e lucidata per un tempo interminabile. Parrebbe che quei materiali avessero subìto una lenta, silenziosa dissoluzione chimica, piuttosto che l’aggressione di un impatto meccanico.

 Un testo specifico (“Le pietre magiche”, di Santini De Riols) ci dice che per lavorare queste pietre destinate al culto veniva usato un “punteruolo consacrato”;  L’unico modo conosciuto per intervenire su materie di quella durezza è quello di scalfirle, con santa pazienza oppure, al giorno d’oggi, utilizzando altissime velocità di rotazione, con un arnese di forma adatta, fatto di qualcosa di ancora più duro.

Ma non esistono molte sostanze più dure di quelle sopra citate, anzi non ne esiste alcuna tranne il diamante che le vince tutte, ma che però a quel tempo non veniva ancora normalmente impiegato.

La ricercatrice Lia Mangolini, arriva pertanto alla sua conclusione (spero non definitiva) in base al quale, non essendo disponibili materiali adatti alla lavorazione, probabilmente nell’antichità si servivano di sostanze in grado di ammorbidire la pietra e gli altri materiali duri, quindi li lavoravano ed il materiale a seguire riprendeva la durezza originaria. Io ringrazio Lia Mangolini per il lavoro svolto e reso noto; ma resto su posizione diversa.

Conclusione

La logica farebbe pensare che l’essere umano, utilizzando la sua intelligenza, dovrebbe costantemente progredire in tutto il suo operare, tranne nei casi in cui si manifesta un ostacolo che ne impedisce la crescita; pertanto una volta acquisite determinate informazioni, queste non dovrebbero più scomparire dal retaggio umano comune. Analizzando il fatto invece che opere del passato, non sono replicabili oggi; sono costretto a pensare che qualcosa di diverso sia avvenuto. Cosa?

Ipotizzo una sola spiegazione: Mentre l’ominide terrestre evolveva e passava attraverso il periodo del rame e del ferro; una cultura di origine non terrestre e molto più avanzata se non semidivina, operava sulla Terra con opere impensabili per il terrestre.  Ad un certo punto, questi se ne sono andati da dove erano venuti e hanno lasciato ai posteri terrestri il quesito di spiegare come certe opere siano state possibili in tempi in cui l’uomo non disponeva di tali risorse.

E’ un dato di fatto che la levitazione esiste. La levitazione è quel fenomeno mediante il quale viene annullata la forza di gravità e l’oggetto si solleva gestito dal pensiero. Perché non pensare che allora gli dei disponessero di tecnologia in grado di generare la levitazione controllata? E ancora, siamo certi che quando il campo di forza solleva il peso, la solidità della materia è la stessa? Gli uomini hanno dimenticato, perché non hanno mai conosciuto realmente. Quelli che conoscevano erano altri uomini! Ci sono rimaste le loro opere, ma non la loro tecnologia e la loro conoscenza.

presenzealiene@gmail.com

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